La comunicazione è da sempre specchio della società. Più la società progredisce più la comunicazione evolve e viceversa. Essa ne riflette le tendenze, i gusti, gli stati d’animo, a volte anche in ritardo, raramente anticipandoli o dirigendoli, come invece accadeva negli anni del dopoguerra, dove era più facile scoprirne la forza manipolatrice, nel senso buono del termine. Da allora rintanandosi in un guscio più o meno dorato e aspettando di capire cosa stesse succedendo nelle società, la pubblicità ha abdicato al suo potere persuasivo e al ruolo di motore sociale (ndr.: con qualche rara eccezione). Essendo specchio quindi la pubblicità riflette ciò che vede. E ciò che vede non sempre è degno di essere riflesso. Perchè in Italia scontiamo anni di arretratezza culturale che si riflettono negativamente sulla qualità dei messaggi pubblicitari e della comunicazione in genere. E’ un’arretratezza visibile in tanti ambiti della nostra vita sociale e culturale. A partire dalla televisione, il mass media più amato dai pubblicitari. Basti osservare le fiction che ci vengono propinate, i programmi in prima serata cui assistiamo. Il cinema. Nonostante alcuni interessanti rigurgiti negli anni passati che sembravano aver rivitalizzato il cinema italiano e a parte qualche eccezione lodevole di menzione e relativo premio, la maggior parte della produzione cinematografica nostrana non brilla certo per originalità cadendo spesso nel clichè, nei luoghi comuni, nel dejà vu, o semplicemente rintanandosi in un passato che appare più confortevole. I giornali, mass media a rischio fallimento i cui motivi sono sotto gli occhi di tutto. E anche nelle arti. L’architettura ad esempio. La maggior parte degli edifici/strutture italiane degni di nota risalgono ai primi anni del secolo scorso. Qualche eccezione esiste ma ben poca cosa per un paese come il nostro. Ancora un’arretratezza che si ritrova nell’arte, nel teatro, nella letteratura e anche nelle arti minori quali la grafica, che impaludisce ogni mirabile tentativo di sperimentare e uscire fuori dalle righe. Senza alcuna paura di mescolare mass media e arti varie, perchè è la sommatoria di essi che genera la cultura. In molti di questi campi assistiamo a sparuti salti di qualità ma che rimangono, nella maggior parte dei casi, insabbiati nella palude della mediocrità o rintanati in qualche salotto.

E veniamo ai social. Mezzi potenti ma usati male e sviliti da un malessere psico-sociale, da ignoranza funzionale che li ammorba e ne annienta tutta la forza comunicativa. Nei paesi industrializzati come il nostro, culla della civiltà europea, tali mezzi meriterebbero ben altri destini. E se si volesse approfondire la questione, immergendosi appena oltre la superficie sociologica dei fenomeni si scoprirebbe come tutto ciò sia influenzato dalla disgregazione di valori sociali, dalla mancanza di organizzazioni meta-sociali e di riferimenti culturali che fungano da guida, dalla presenza di nuove forme instabili di aggregazione e comunità, di nuovi e stantii principi ispiratori, di nuovi simulacri e idolatrie che a nulla portano. La comunicazione che si nutre di tutto ciò, non può essere indenne da tutti questi problemi. Per cui è facile assistere a messaggi banali, mediocri, inutili in un circolo vizioso che vede da una parte un pubblico mediocre, assuefatto, sfiduciato e dall’altra una serie di emittenti arroganti, presuntuose, talvolta incompetenti. Insomma competenze discutibili che si riversano in formati inutili rivolti a target incompresi e compressi nella loro crescita. Il tutto, da qualsiasi parte lo si veda, frutto di menti abituate al qualunquismo, al puro calcolo e all’immediatezza invece di far stimolare, pensare e ragionare. La creatività ne risulta appiattita e mortificata. La pubblicità, arte minore anch’essa, in una deriva drammatica, quasi soppiantata dai nuovi media che di creatività ne hanno poca ma sembrano rispondere meglio alle esigenze del popolo del web e anche qui se ne potrebbe discutere ancora.

L’imprenditoria nostrana nasce da un tessuto frammentato in piccole e piccolissime imprese dove le parole scienza, tecnologia, innovazione faticano a prender piede. Per non parlare del marketing poi. Le grandi imprese italiane non esistono quasi più e con esse anche le scuole manageriali sono sparite. Non esistono nel mondo imprese multinazionali con casa madre italiana. Da sempre il nostro modello di impresa internazionale è basato sull’export, sui distributori, sui grossisti più che sulle filiali, portando molte realtà a dimensioni internazionali anche importanti ma non paragonabili alle multinazionali degli altri paesi, dai quali importiamo modelli di organizzazione, marketing e comunicazione (anche se poi questi ultimi adattati secondo il mantra Think global, act local e teorie varie, fatte frasi, che circolano nel mondo della formazione). Tutto ciò inevitabilmente influisce anche sulla comunicazione. La difficoltà a sperimentare, a provare nuove tecniche, ad usare nuovi linguaggi, ad organizzare nuovi processi nasce dalla impossibilità di trovare terreno fertile per crescere. Semplice: la nostra società arretra, la comunicazione arretra. Basta dare uno sguardo alle pubblicità degli altri Paesi per vedere come siano più avanti, anche in settori tradizionali quali food, grocery, trade, automotive. Basta guardare le pubblicità nostrane e paragonarle a quelle di 20/30/40 anni fa per capire dove ci siamo fermati.

In realtà, in tutto questo grigiore, esiste qualche bagliore che fa bene sperare. Uno spot ben assestato, un evento ben strutturato in grado di polarizzare gli utenti e dividere il pubblico, in grado di rompere un equilibrio perchè è da quella rottura che nascono tensioni e discutendo intorno a quella frattura, argomentando e controargomentando, che la cultura avanza e con essa la società. Ancora pochi sparuti tentativi, ancora spesso originati nelle solite piazze pubblicitarie e dai soliti circuiti. Da soli però incapaci di poter invertire la rotta e promuoversi motore sociale. Invece guardando ad altre esperienze, che spesso si consumano nelle periferie o in centri diversamente urbani, in contesti più piccoli ma originali e genuini, in qualche laboratorio sperduto ma reale concentrato di talenti, guardando lì si potrebbe trovare una soluzione. Con una prospettiva disincantata ancora in grado di dare un significato alle parole emozioni, istinto, sentimento. E’ lì che bisogna guardare… sommando ciò che di buono proviene dai grandi centri, in un mix di archetipi, di tradizioni, di novità, con prove, pratiche e conoscenze approfondite. In tal modo si può trovare il germe di una nuova cultura della comunicazione che non sia più semplice riflesso della società ma possa aiutare la società stessa ad avanzare.

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Luca Scrimieri

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